sabato 17 ottobre 2015

Parliamo di famiglia

Guatemala, Colombia, Premana

Dopo l'intervista a Riccardo e Marzia, che ci hanno parlato dell'affido, abbiamo chiesto a Morris e Paola (nostri redattori) di presentarci la loro esperienza di famiglia con figli in adozione. E così abbiamo trascorso un piacevole pomeriggio a Premaniga, ascoltando il loro racconto.
 
Come inizia la vostra storia di famiglia adottiva? Chi ha proposto per primo l’adozione? Chi ha espresso il pensiero per primo è una domanda difficile, non ricordiamo, ci siamo arrivati insieme. Nel 2000 abbiamo presentato la prima domanda al Tribunale dei Minori e fatto la conoscenza delle operatrici della ASL incaricate della valutazione. Sono passati 15 anni da quel primo contatto e ancora non abbiamo terminato i colloqui: ci considerano praticamente clienti fissi!
Guatemala - bimbi nell'istituto

È davvero molto tempo...  Sì, ma quella prima richiesta viene respinta, in ragione del fatto che non avevamo affrontato tutti gli esami clinici necessari per avere una gravidanza… in realtà noi non abbiamo mai voluto un figlio naturale ad ogni costo. Abbiamo ripresentato la domanda nel 2003.

E questa volta non vi “bocciano”. No, otteniamo l’idoneità. Ma già prima del decreto si entra nelle liste di disponibilità per l’adozione nazionale e si può essere chiamati. È ciò che ci accade nell’estate del 2001, proprio nel periodo in cui la mamma Pinetta si trovava allo stadio terminale della malattia. 

Dunque vi viene proposta una adozione nazionale? Sì. Veniamo finalmente scelti per un colloquio di approfondimento e il 14 agosto 2001 siamo a Milano … a spiegare al giudice che abbiamo in casa la mamma gravemente malata, in pratica in fin di vita.
Paola - Ovviamente mi viene detto chiaro e tondo che dare la mia disponibilità in quel momento è impensabile: il bambino ha bisogno immediato «della tetta» - come dice la psicologa - e necessita di dedizione incondizionata; ma anche la morte di un genitore è un momento prezioso, da condividere, del quale non mi devo privare. Oggi so che è stato importante vivere appieno questa esperienza accanto a mia mamma, ma in quel momento mi sentivo doppiamente punita dalla sorte.

È stato difficile relazionarvi con i giudici, gli psicologi e così via? La nostra esperienza in questo lungo percorso con i servizi sociali e il tribunale è stata positiva, nonostante le difficoltà incontrate. Possiamo affermare di aver conosciuto tante persone competenti, serie, attente. Anche nel momento in cui ci hanno detto dei no.
Chi si occupa di adozione ha quale obiettivo il bene di un bambino e lavora con “materiale umano” estremamente delicato: un minore in enorme difficoltà da un lato, dall’altro una coppia con un equilibrio psicologico e relazionale da salvaguardare. Insomma: i no hanno di solito le loro ragioni, quantomeno prudenziali.
 
Quando si viene chiamati per una adozione, viene proposto direttamente un bambino o si ha modo di vederne diversi? No assolutamente, la proposta di adozione segue sempre una delicata procedura di abbinamento - fatta dagli operatori – fra le caratteristiche di una coppia e quelle di un minore. Si considera tutto: l’età, l’ambiente sociale e famigliare, i tratti di personalità, i trascorsi e le reazioni psicologiche, le risorse individuali … non è un mercato.

Come siete arrivati alla prima adozione? Dopo l’idoneità si seguono dei corsi e si affida il mandato ad un ente riconosciuto dalla CAI (commissione adozioni internazionali) che faccia da intermediario con un Paese estero. Le suore Somasche di Lecco accettano il nostro incarico nel giugno del 2004. Iniziamo l’attesa per l’adozione in Guatemala.
Durante il percorso con la psicologa e l’assistente sociale della ASL, avevamo maturato la disponibilità per l’adozione di due fratelli. In pratica poi le suore somasche non facevano adozioni di fratelli, per scelta. In questo modo il nostro progetto di famiglia si sarebbe compiuto “a metà” e si profilava già, in prospettiva, un “sequel” …
Poi è iniziato un calvario. L’attesa dell’abbinamento era messa in conto; il calvario è stato dopo, ad abbinamento avvenuto.

Come ha luogo concretamente l’abbinamento? Sulla scorta di un profilo di coppia, si viene individuati come possibili genitori di un certo bimbo, per cui l’ente ti convoca e ti presenta quel dato bambino. Ti vengono date tutte le informazioni disponibili: età, condizioni di salute, cause dello stato di abbandono; informazioni talora anche precise sull’ambiente di provenienza, sui genitori naturali… insomma, tutto ciò che si sa. Su questa base la coppia deve decidere se accettare l’adozione. É una scelta che va fatta in modo estremamente consapevole e libero, non può avvenire forzando delle resistenze interiori perché una volta accolto un bambino tu diventi il suo destino.
Si devono ancora espletare le pratiche necessarie e i tempi possono anche essere lunghi, ma prima o poi quello diventa tuo figlio. Inizia una vera e propria gestazione.

Alla scoperta del Guatemala - la marimba
Avete definito questa attesa addirittura “un calvario” … Darvin ci è stato abbinato il 13 luglio 2005, il giorno del suo terzo compleanno. È arrivato in Italia 24 gennaio 2007.
Va precisato che i problemi non sono sorti durante la preparazione dei documenti in Italia, ma nelle procedure in Guatemala. Un pasticcio tale che il bambino si è sentito dire per ben diciotto mesi che papà e mamma c’erano e che sarebbero venuti, ma non subito. Vedeva arrivare coppie a prendere i suoi compagni di vita e chiedeva quando sarebbe toccato a lui; non voleva frequentare la scuola materna perché dovevano arrivare mamma e papà a portarlo via…  Un vero e proprio strazio, che ha lasciato alcune ferite.

L’incontro con i bambini come avviene? All’aeroporto di Guatemala City siamo stati accolti da una suora che ci ha portati all’istituto, dove ci siamo intrattenuti con alcune delle persone che seguivano i bimbi. Quando, in modo molto naturale e informale, è arrivata la madre superiora tenendo per mano Darvin – un cucciolotto di quattro anni che era proprio da mangiare – lui ci è immediatamente volato in braccio, si è aggrappato e non si è staccato più! Naturalmente poi la costruzione di un attaccamento vero e proprio è molto lunga, richiede grande pazienza… Il bambino ti mette alla prova continuamente su ogni fronte: quanto si può fidare di te, quanto sei disposto a fare per lui, quanto ti può manipolare e quali sono i “paletti” che non sei disposto a spostare.

Ma si vive da subito insieme? Nel caso si Darvin, vivevamo di fatto dentro l’istituto, però in un appartamento separato. La vita insieme è cominciata subito, ma dentro un ambiente molto famigliare al bambino. Nella seconda adozione, invece, dopo l’incontro Angy è venuta via con noi e abbiamo vissuto insieme in totale autonomia, pur con il sostegno della psicologa dell’ente operativa a Bogotá e sotto la supervisione dell’assistente sociale per la prima settimana.
L’iter burocratico che si doveva concludere in Guatemala era piuttosto breve; nel giro di due settimane siamo tornati a casa.

Nel frattempo avete fatto un po’ i turisti? Alcune escursioni fuori città (Chichicastenango, il lago di Atitlan, Antigua…) ci venivano organizzate dalle suore ed eravamo sempre accompagnati. Per quanto non ci sia stato possibile vedere il Guatemala come avremmo voluto, è stato comunque importante entrare un po’ in contatto con lo spazio geografico e umano, la cultura india. É la terra dell’eterna primavera, povera e arretrata, ma ricchissima di storia, tradizione, natura.
Quando adotti un bimbo che viene da lontano adotti un po’ anche la sua patria. E, soprattutto, tu sei gli occhi di tuo figlio: finché non tornerà a incontrarlo, lui conoscerà il suo Paese attraverso le tue parole, le tue impressioni.
In città uscivamo soli, dopo aver superato qualche resistenza da parte delle suore, che non finivano di metterci in guardia contro la malavita: Darvin per la prima volta vedeva un prato, provava a correre libero, rincorreva i piccioni nelle piazze… I bambini lì non uscivano mai dall’istituto!

Vita in casa a Bogotà
Vivevano sempre chiusi? Sì assolutamente. Uscivano, solo i grandi, per la messa della domenica, ma si trattava di attraversare la strada!  Altrimenti c’erano le loro camerette, la zona pranzo, la zona giochi, un piccolo cortile interno di cemento e, per i più grandicelli, la scuola, dove incontravano anche gli alunni esterni. Le finestre avevano le sbarre, i muri perimetrali il filo spinato: non una prigione per i bimbi, ma una difesa contro i delinquenti. L’apertura al mondo era costituita dalla televisione… Il tutto era tenuto molto bene, lindo, vivace, a misura di bimbo. Le suore non facevano mancare nulla… ma era un universo separato.

L’istituto ospitava molti bambini? Sì, tanti. Un’ottantina solo i piccolissimi, in età prescolare. Poi c’era la sezione separata per i maschietti della scuola elementare, mentre l’istituto femminile era da un’altra parte. Ma ne abbiamo visti arrivare almeno un paio in due settimane… per vie indescrivibili.  Quando li vai a trovare i piccoli ti si aggrappano alle gambe, i grandi ti fanno una corte spudorata. Sono momenti terribili; te li porteresti via tutti, soprattutto quelli di nove, dieci anni, con gli occhi tristi, che stanno perdendo la speranza di trovare famiglia…

I bambini adottati desiderano tornare a conoscere il loro Paese? Non possiamo rispondere per tutti. Darvin da tempo ha espresso questo desiderio e quando sarà il momento giusto lo accompagneremo anche in questo tratto di strada. È comunque importante per tutti almeno un “viaggio di ritorno”; alcune lacune non saranno mai colmate, ma questi ragazzi devono recuperare almeno quella parte della loro identità che è recuperabile: per esempio le informazioni sul loro passato. Il contatto con la terra di origine in questo senso è fondamentale.

Cosa direste a chi esprime un desiderio di adozione?
Sono scelte molto intime. Noi abbiamo optato per l’adozione perché volevamo evitare l’accanimento del figlio generato ad ogni costo, non volevamo sfiancarci psicologicamente e fisicamente con pratiche mediche invasive. Allo stesso modo, abbiamo vissuto entrambe le adozioni come un desiderio di accoglienza, una possibilità; in un certo senso, tu scegli di percorrere una strada e poi pensi: «Fin qui posso arrivare io con la mia volontà, poi, sarà quel che Dio vuole».
A chi ha dubbi possiamo dire che il cammino da percorrere è tale per cui le occasioni per indagare i tuoi desideri profondi e le tue risorse sono innumerevoli, proprio anche grazie al supporto dei servizi sociali. Conosciamo coppie adottive che avevano già prima un bambino e viceversa.
Quando ci vengono chieste le ragioni dell’adozione, ci capita di pensare che la domanda corretta è: «Perché no?». Anche quando ci è stato proposto il secondo abbinamento, con una bimba molto più piccola e più impegnativa di quello che era nei nostri piani, ci siamo chiesti: «Quali sarebbero le ragioni vere, valide per non accettare?»
Certo che poi i dubbi, le insicurezze si affacciano continuamente… Quando potremo dire che è andato tutto bene? Quando i ragazzi saranno adulti, avranno finalmente trovato la loro strada. Ma in questo non ci sentiamo diversi dagli altri genitori.

C’è anche chi, non avendo figli, ritiene che, se il Padre eterno non gliene ha dati, deve andare bene così. Ma a noi il Padre eterno ne ha dati: ben due! Torniamo a precisare che adottare significa esprimere una disponibilità, non andare a prendere un bambino!

Come è stato il ritorno in Italia la prima volta, con Darvin? Ha avuto difficoltà ad ambientarsi? Be’, si è dovuto adattare a tante novità: suoni, sapori, odori, ambienti… Innanzitutto il clima: Darvin appena arrivato ha conosciuto la neve! Dopo qualche diffidenza iniziale, è stato subito amore e a una decina di giorni dall’arrivo era già sugli sci.
Darvin da subito ha rifiutato totalmente lo spagnolo ed ha appreso un buon italiano nel giro di pochissimi mesi (con la complicità dei film di animazione…); era un modo per tagliare i ponti con una vita che gli aveva provocato parecchia sofferenza. Finché non siamo arrivarti in Colombia da Angy… da quel momento ha cominciato a “riconoscersi” ed oggi rimangono alcune parole e frasi in lingua spagnola che costituiscono il “loro linguaggio privato, esclusivo”.
Davanti alla Catedral Primaria - Bogotà
A primavera Darvin è stato introdotto alla scuola materna. Noi ci eravamo interessati alla possibilità che entrasse nella classe successiva, con i “piccoli”, per dargli il tempo necessario a recuperare tutte le inevitabili lacune con la massima serenità. Questi bambini presentano sempre un certo ritardo psicomotorio, dovuto alle condizioni di privazione in cui sono vissuti, che va affrontato con serenità e pazienza. Una serie di verifiche con la neuropsichiatra ci ha poi convinto a non fargli perdere un anno: ciò gli è costato un grande impegno e ha dovuto dimostrare tanta tenacia. Forse avremmo fatto meglio a seguire il nostro istinto…Con Angy, appunto, abbiamo fatto questa scelta.  

È così faticoso mettersi alla pari con i compagni? Un aspetto di cui c’è poca consapevolezza in chi non conosce il mondo dell’adozione è che l’abbandono per povertà è qualcosa di molto raro; tu non abbandoni tuo figlio perché sei indigente: piuttosto vai a rubare. Questi bambini provengono da realtà di enorme miseria morale, spesso hanno vissuto storie atroci e comunque hanno subito una qualche forma di violenza, quantomeno il rifiuto e l’incuria. Spessissimo sono bimbi tolti alle famiglie: i servizi sociali esistono anche nei paesi del Terzo Mondo. Accoglierli significa innanzitutto accogliere con grande delicatezza la loro storia, il loro dolore. Le competenze “scolastiche” vengono molto, molto dopo.

Avete mai pensato all’affido famigliare? Sì, ci abbiamo pensato. Prima di Darvin ci eravamo interessati, ma poi la cosa non è mai decollata. Non ci siamo sentiti a nostro agio con le prospettive che un affido può aprire: i rapporti con le famiglie di origine, la possibilità di un distacco totale e definitivo dopo aver condiviso molto; ma anche, per contro, il rischio di non sentire fino in fondo la responsabilità genitoriale quando subentrano le difficoltà grandi…

Come è iniziato il percorso per la seconda adozione? Dopo l’arrivo di Darvin è iniziato appena possibile poiché era un’aspirazione di tutti e tre.

Come arrivate in Colombia? Darvin aveva espresso il desiderio che venissimo indirizzati dall’ente (il CIAI, questa volta) in America Latina ed evidentemente gli psicologi hanno accolto questo suo bisogno di “ritrovarsi” in un fratello adottivo. L’integrazione a Premana, negli anni, non è stata sempre scontata: il nostro paese non è del tutto a suo agio con le differenze, nemmeno quelle somatiche.

Durante i colloqui con i servizi sociali vengono affrontati questi argomenti? Sì indubbiamente sono tutte situazioni con le quali vieni “costretto” a fare i conti prima, non ti colgono alla sprovvista. Tra l’altro la reazione della gente davanti alla diversità è qualcosa che i nostri bambini devono imparare a gestire, perché si ripresenterà per tutta la vita. Lo puoi fare se hai sviluppato una sufficiente autostima e se ti senti amato.

Si possono esprimere delle preferenze sul figlio adottivo?  Non si tratta tanto di esprimere preferenze, quanto di valutare a fondo le proprie disponibilità: cosa si è in grado di accogliere rispetto ad età, etnia, problemi di salute, gravità dei traumi vissuti… questi bambini sono sempre più spesso “special needs”, cioè bambini con bisogni speciali.

Dunque siete stati inseriti in una specie di lista di attesa colombiana? Sì, entri nella lista de espera straniera. Ci sono dei tempi di attesa lunghi prima che ciò avvenga: a quel punto ricevi una comunicazione direttamente dalla Colombia.
A giugno 2014, poi, veniamo chiamati per un colloquio di approfondimento. Ormai siamo abbastanza smagati da intuire che c’è dietro qualcosa… e infatti ci viene presentata Angy. A luglio abbiamo finalmente accettato l’abbinamento, ai primi di ottobre siamo partiti e siamo tornati con Angy a dicembre.

Il soggiorno in Colombia è stato piuttosto avventuroso… Due mesi secchi di cavilli legali! Il procedimento giuridico in Colombia parte all’arrivo dei genitori, sei tu che presenti la domanda di adozione. Ci sono stati momenti davvero duri: sedute un po’ kafkiane in tribunale, scomodissimi viaggi in auto di 400 chilometri fra Bogotà e Ibaguè, inutili tentativi di abboccamento con alti funzionari; sempre tutto con figli al seguito…  Però abbiamo vissuto anche tante giornate stupende: nel nostro bel quartiere di Bogotà e alla scoperta del Paese. La Colombia offre tantissimo in tutti i sensi; la sola Bogotà è una megalopoli di 10 milioni di abitanti. Al nostro arrivo ci siamo trasferiti a Ibaguè – la città natale di Angy - dove, nella sede dell’istituto del Bienestar Familiar abbiamo avuto un estenuante colloquio con lo psicologo señor Mauricio, che ha cercato in ogni modo di terrorizzarci; poi è avvenuto l’incontro. Molto teatrale, secondo il gusto e il carattere tipici dei colombiani, con tanto di torta e palloncini e la bimba agghindata come una principessa. Dopo una settimana abbiamo messo su casa nel vero senso della parola, in un appartamentino della capitale: alla fine ci sentivamo davvero Bogotanos.

Come ha reagito Angy? Decisamene se ne è infischiata della torta! Era stata preparata molto bene; ci aspettava, era consapevole di ciò che stava vivendo e ci ha accolti a braccia aperte. Da subito ha iniziato una vera love story con il «mi papito, mio amore!». Angy ha dei trascorsi molto pesanti, difficili da gestire ancora oggi, ma è stata da subito estremamente affettuosa e solare.

E Darvin come viveva la nuova situazione? Darvin è un ragazzino reattivo di fronte ai problemi; soprattutto se percepisce una difficoltà nei genitori, lui è incredibilmente positivo. Il fatto di dividere per la prima volta le nostre attenzioni con qualcun altro lo rendeva un po’ irritabile, ma lo sconforto riguardava semmai la mancanza dei compagni, del gruppo dei pari.
Stava vivendo un’esperienza umana molto forte: il contatto con la lingua, i sapori, il clima, simili a quelli della sua prima infanzia; la cultura che si respirava durante i nostri vagabondaggi; ma soprattutto il fatto di ri-vivere l’adozione attraverso la sorella. Tutto questo ha significato tanto per lui, a livello emotivo.
Le lungaggini che ci hanno fatto cambiare per ben due volte la data di rientro erano motivo di forte stress per tutti: ci siamo inventati perfino il «cartellone delle parolacce», dove scrivere gli improperi che ci venivano in mente per scaricare tensione e farci una risata sopra. A posteriori possiamo però dire che questo tempo lungo è servito: non solo a “fare i turisti”, è servito a “fare famiglia”.
Poi mantenevamo i contatti: skype, facebook, whatsapp… è stata un’adozione molto “social” questa; dal Guatemala, soli otto anni prima, eravamo riusciti a telefonare a casa una volta.

L’assistenza dell’ente è rilevante all’estero?  Noi ci siamo sentiti molto supportati: c’erano l’avvocato - una vera iena, la psicologa, con cui abbiamo instaurato un rapporto intenso, e Rodrigo, che ci aiutava nelle pratiche burocratiche. Tutti realmente organizzati e disponibili.

Ci saranno da sostenere spese notevoli… Si tratta dei costi amministrativi e di personale degli enti. Le tariffe sono trasparenti, pubblicate sul sito della Commissione Adozioni. Poi ci sono i costi di volo e di soggiorno, ovviamente a carico della coppia adottante. 
Non è un caso se le adozioni internazionali sono diminuite del 30% negli ultimi cinque anni. L’Italia rimane comunque il secondo Paese al mondo che adotta, dopo gli USA e seguita dalla Francia. Noi a Bogotà abbiamo trovato coppie da Genova, da Torino, da Napoli, da Roma… due di queste alla seconda adozione.

Sappiamo che avete incontrato anche suor Maria. Tradizione vuole che se viaggi in un Paese dove c’è un missionario premanese tu lo vada a trovare… La scuola delle suore era a una ventina di minuti di taxi da casa nostra, in un quartiere povero: dalle suore non ci aspettava solo un piccolo pezzo di Premana, ma una casa ospitale e un valido sostegno morale e pratico.  I bambini si sono affezionati subito; abbiamo festeggiato con loro il nostro 20° anniversario di matrimonio e, grazie a suor Maria, ci siamo messi in contatto con la scuola italiana di Bogotà per Darvin, che stava perdendo mesi di lezione.

Bagaglio leggero...
A Bogotá c’è una scuola italiana? Riconosciuta dal nostro Ministero. Ci sono tantissime scuole internazionali; l’istruzione privata è l’unica di qualità e i colombiani facoltosi si rivolgono lì. Come la sanità: quella privata è efficiente e all’avanguardia. Noi abbiamo ricoverato Angy in una clinica universitaria in seguito ad una gastroenterite: esami completi, consulti specialistici, igiene invidiabile, perfino una vestaglietta azzurra con il logo della clinica…con una buona assicurazione o una buona carta di credito puoi avere il meglio!

Dunque ci sono anche molti benestanti… La Colombia è dotata di grandi risorse e sta vivendo un forte sviluppo economico; poi però ci sono guerriglie, criminalità, economie illegali… e un divario sociale da paura, inaccettabile agli occhi di un europeo. I campesinos sono poveri e dignitosi, le baraccopoli delle città immense e terribili; ma i parchi dei quartieri buoni sono pieni di bambinaie in divisa, dog sitter che portano fuori esemplari di razza, giovanottoni accompagnati dal personal trainer e bimbi firmati da capo a piedi. La seguridad privata è ovunque; i centri commerciali di Bogotá offrono il meglio e a prezzi spesso più elevati che da noi!

Avete vissuto un Paese molto a fondo. Sì, per incontrare un luogo devi fare la spesa al supermercato di quartiere, andare dal medico, viaggiare sui mezzi di trasporto che usa la gente…senza intermediari.

Come concludereste questa chiacchierata? Un’adozione internazionale è un’avventura dell’anima, un’esperienza umana impagabile. Noi siamo una famiglia “sempre in völte”, ma ci piace così: non ci annoiamo.