Guatemala, Colombia, Premana
Dopo l'intervista a Riccardo e Marzia,
che ci hanno parlato dell'affido, abbiamo chiesto a Morris e Paola (nostri
redattori) di presentarci la loro esperienza di famiglia con figli in adozione.
E così abbiamo trascorso un piacevole pomeriggio a Premaniga, ascoltando il
loro racconto.
Come inizia la vostra storia di famiglia adottiva?
Chi ha proposto per primo l’adozione? Chi ha espresso il pensiero per
primo è una domanda difficile, non ricordiamo, ci siamo arrivati insieme. Nel
2000 abbiamo presentato la prima domanda al Tribunale dei Minori e fatto la
conoscenza delle operatrici della ASL incaricate della valutazione. Sono
passati 15 anni da quel primo contatto e ancora non abbiamo terminato i colloqui:
ci considerano praticamente clienti fissi!
Guatemala - bimbi nell'istituto |
È davvero molto tempo... Sì, ma quella prima richiesta viene respinta, in ragione del fatto che non avevamo affrontato tutti gli esami clinici necessari per avere una gravidanza… in realtà noi non abbiamo mai voluto un figlio naturale ad ogni costo. Abbiamo ripresentato la domanda nel 2003.
E questa volta non vi “bocciano”.
No, otteniamo l’idoneità. Ma già prima del decreto si entra nelle liste di
disponibilità per l’adozione nazionale e si può essere chiamati. È ciò che ci
accade nell’estate del 2001, proprio nel periodo in cui la mamma Pinetta si
trovava allo stadio terminale della malattia.
Dunque vi viene proposta una adozione nazionale? Sì.
Veniamo finalmente scelti per un colloquio di approfondimento e il 14 agosto
2001 siamo a Milano … a spiegare al giudice che abbiamo in casa la mamma
gravemente malata, in pratica in fin di vita.
Paola - Ovviamente mi viene detto chiaro e
tondo che dare la mia disponibilità in quel momento è impensabile: il bambino
ha bisogno immediato «della tetta» - come dice la psicologa - e necessita di
dedizione incondizionata; ma anche la morte di un genitore è un momento
prezioso, da condividere, del quale non mi devo privare. Oggi so che è stato
importante vivere appieno questa esperienza accanto a mia mamma, ma in quel
momento mi sentivo doppiamente punita dalla sorte.
È stato difficile relazionarvi con i giudici, gli psicologi
e così via? La nostra esperienza in questo lungo
percorso con i servizi sociali e il tribunale è stata positiva, nonostante le
difficoltà incontrate. Possiamo affermare di aver conosciuto tante persone
competenti, serie, attente. Anche nel momento in cui ci hanno detto dei no.
Chi si occupa di adozione ha quale obiettivo il bene di un
bambino e lavora con “materiale umano” estremamente delicato: un minore in
enorme difficoltà da un lato, dall’altro una coppia con un equilibrio
psicologico e relazionale da salvaguardare. Insomma: i no hanno di solito le
loro ragioni, quantomeno prudenziali.
Quando si viene chiamati per una adozione, viene proposto
direttamente un bambino o si ha modo di vederne diversi? No assolutamente,
la proposta di adozione segue sempre una delicata procedura di abbinamento -
fatta dagli operatori – fra le caratteristiche di una coppia e quelle di un
minore. Si considera tutto: l’età, l’ambiente sociale e famigliare, i tratti di
personalità, i trascorsi e le reazioni psicologiche, le risorse individuali …
non è un mercato.
Come siete arrivati alla prima adozione? Dopo l’idoneità si seguono dei corsi e si affida il mandato ad un ente riconosciuto dalla CAI (commissione adozioni internazionali) che faccia da intermediario con un Paese estero. Le suore Somasche di Lecco accettano il nostro incarico nel giugno del 2004. Iniziamo l’attesa per l’adozione in Guatemala.
Durante il percorso con la psicologa e l’assistente sociale
della ASL, avevamo maturato la disponibilità per l’adozione di due fratelli. In
pratica poi le suore somasche non facevano adozioni di fratelli, per scelta. In
questo modo il nostro progetto di famiglia si sarebbe compiuto “a metà” e si
profilava già, in prospettiva, un “sequel” …
Poi
è iniziato un calvario. L’attesa dell’abbinamento era messa in conto; il
calvario è stato dopo, ad abbinamento avvenuto.
Come ha luogo concretamente l’abbinamento?
Sulla scorta di un profilo di coppia, si viene individuati come possibili
genitori di un certo bimbo, per cui l’ente ti convoca e ti presenta quel dato
bambino. Ti vengono date tutte le informazioni disponibili: età, condizioni di
salute, cause dello stato di abbandono; informazioni talora anche precise
sull’ambiente di provenienza, sui genitori naturali… insomma, tutto ciò che si
sa. Su questa base la coppia deve decidere se accettare l’adozione. É una
scelta che va fatta in modo estremamente consapevole e libero, non può avvenire
forzando delle resistenze interiori perché una volta accolto un bambino tu
diventi il suo destino.
Si devono ancora espletare le pratiche necessarie e i tempi
possono anche essere lunghi, ma prima o poi quello diventa tuo figlio. Inizia
una vera e propria gestazione.
Avete definito questa attesa addirittura “un calvario” …
Darvin ci è stato abbinato il 13 luglio 2005, il giorno del suo terzo
compleanno. È arrivato in Italia 24 gennaio 2007.
Va precisato che i problemi non sono sorti durante la
preparazione dei documenti in Italia, ma nelle procedure in Guatemala. Un
pasticcio tale che il bambino si è sentito dire per ben diciotto mesi che papà
e mamma c’erano e che sarebbero venuti, ma non subito. Vedeva arrivare coppie a
prendere i suoi compagni di vita e chiedeva quando sarebbe toccato a lui; non
voleva frequentare la scuola materna perché dovevano arrivare mamma e papà a
portarlo via… Un vero e proprio strazio,
che ha lasciato alcune ferite.
L’incontro con i bambini come avviene? All’aeroporto di Guatemala City siamo stati accolti da una suora che ci ha portati all’istituto,
dove ci siamo intrattenuti con alcune delle persone che seguivano i bimbi.
Quando, in modo molto naturale e informale, è arrivata la madre superiora
tenendo per mano Darvin – un cucciolotto di quattro anni che era proprio da
mangiare – lui ci è immediatamente volato in braccio, si è aggrappato e non si
è staccato più! Naturalmente poi la costruzione di un attaccamento vero e
proprio è molto lunga, richiede grande pazienza… Il bambino ti mette alla prova
continuamente su ogni fronte: quanto si può fidare di te, quanto sei disposto a
fare per lui, quanto ti può manipolare e quali sono i “paletti” che non sei
disposto a spostare.
Ma si vive da subito insieme?
Nel caso si Darvin, vivevamo di fatto dentro l’istituto, però in un
appartamento separato. La vita insieme è cominciata subito, ma dentro un
ambiente molto famigliare al bambino. Nella seconda adozione, invece, dopo
l’incontro Angy è venuta via con noi e abbiamo vissuto insieme in totale
autonomia, pur con il sostegno della psicologa dell’ente operativa a Bogotá e
sotto la supervisione dell’assistente sociale per la prima settimana.
L’iter burocratico che si doveva concludere in Guatemala era
piuttosto breve; nel giro di due settimane siamo tornati a casa.
Nel frattempo avete fatto un po’ i turisti? Alcune
escursioni fuori città (Chichicastenango, il lago di Atitlan, Antigua…) ci
venivano organizzate dalle suore ed eravamo sempre accompagnati. Per quanto non
ci sia stato possibile vedere il Guatemala come avremmo voluto, è stato
comunque importante entrare un po’ in contatto con lo spazio geografico e
umano, la cultura india. É la terra dell’eterna primavera, povera e arretrata,
ma ricchissima di storia, tradizione, natura.
Quando adotti un bimbo che viene da lontano adotti un po’
anche la sua patria. E, soprattutto, tu sei gli occhi di tuo figlio: finché non
tornerà a incontrarlo, lui conoscerà il suo Paese attraverso le tue parole, le
tue impressioni.
In città uscivamo soli, dopo aver superato qualche
resistenza da parte delle suore, che non finivano di metterci in guardia contro
la malavita: Darvin per la prima volta vedeva un prato, provava a correre
libero, rincorreva i piccioni nelle piazze… I bambini lì non uscivano mai
dall’istituto!
Vivevano sempre chiusi? Sì assolutamente.
Uscivano, solo i grandi, per la messa della domenica, ma si trattava di
attraversare la strada! Altrimenti
c’erano le loro camerette, la zona pranzo, la zona giochi, un piccolo cortile
interno di cemento e, per i più grandicelli, la scuola, dove incontravano anche
gli alunni esterni. Le finestre avevano le sbarre, i muri perimetrali il filo
spinato: non una prigione per i bimbi, ma una difesa contro i delinquenti.
L’apertura al mondo era costituita dalla televisione… Il tutto era tenuto molto
bene, lindo, vivace, a misura di bimbo. Le suore non facevano mancare nulla… ma
era un universo separato.
L’istituto ospitava molti bambini? Sì,
tanti. Un’ottantina solo i piccolissimi, in età prescolare. Poi c’era la
sezione separata per i maschietti della scuola elementare, mentre l’istituto
femminile era da un’altra parte. Ma ne abbiamo visti arrivare almeno un paio in
due settimane… per vie indescrivibili.
Quando li vai a trovare i piccoli ti si aggrappano alle gambe, i grandi
ti fanno una corte spudorata. Sono momenti terribili; te li porteresti via
tutti, soprattutto quelli di nove, dieci anni, con gli occhi tristi, che stanno
perdendo la speranza di trovare famiglia…
I bambini adottati desiderano tornare a conoscere il loro
Paese? Non possiamo rispondere per tutti. Darvin da tempo ha
espresso questo desiderio e quando sarà il momento giusto lo accompagneremo
anche in questo tratto di strada. È comunque importante per tutti almeno un
“viaggio di ritorno”; alcune lacune non saranno mai colmate, ma questi ragazzi
devono recuperare almeno quella parte della loro identità che è recuperabile:
per esempio le informazioni sul loro passato. Il contatto con la terra di
origine in questo senso è fondamentale.
Cosa direste a chi esprime un desiderio di adozione?
Sono scelte molto intime. Noi abbiamo optato per l’adozione
perché volevamo evitare l’accanimento del figlio generato ad ogni costo, non
volevamo sfiancarci psicologicamente e fisicamente con pratiche mediche
invasive. Allo stesso modo, abbiamo vissuto entrambe le adozioni come un
desiderio di accoglienza, una possibilità; in un certo senso, tu scegli di
percorrere una strada e poi pensi: «Fin qui posso arrivare io con la mia
volontà, poi, sarà quel che Dio vuole».
A chi ha dubbi possiamo dire che il cammino da percorrere è
tale per cui le occasioni per indagare i tuoi desideri profondi e le tue
risorse sono innumerevoli, proprio anche grazie al supporto dei servizi
sociali. Conosciamo coppie adottive che avevano già prima un bambino e
viceversa.
Quando ci vengono chieste le ragioni dell’adozione, ci
capita di pensare che la domanda corretta è: «Perché no?». Anche quando ci è
stato proposto il secondo abbinamento, con una bimba molto più piccola e più
impegnativa di quello che era nei nostri piani, ci siamo chiesti: «Quali
sarebbero le ragioni vere, valide per non accettare?»
Certo che poi i dubbi, le insicurezze si affacciano
continuamente… Quando potremo dire che è andato tutto bene? Quando i ragazzi
saranno adulti, avranno finalmente trovato la loro strada. Ma in questo non ci
sentiamo diversi dagli altri genitori.
C’è anche chi, non avendo figli, ritiene che, se il Padre
eterno non gliene ha dati, deve andare bene così.
Ma a noi il Padre eterno ne ha dati: ben due! Torniamo a precisare che adottare
significa esprimere una disponibilità, non andare a prendere un bambino!
Come è stato il ritorno in Italia la prima volta, con
Darvin? Ha avuto difficoltà ad ambientarsi? Be’, si è dovuto adattare a
tante novità: suoni, sapori, odori, ambienti… Innanzitutto il clima: Darvin
appena arrivato ha conosciuto la neve! Dopo qualche diffidenza iniziale, è
stato subito amore e a una decina di giorni dall’arrivo era già sugli sci.
Darvin da subito ha rifiutato totalmente lo spagnolo ed ha
appreso un buon italiano nel giro di pochissimi mesi (con la complicità dei
film di animazione…); era un modo per tagliare i ponti con una vita che gli
aveva provocato parecchia sofferenza. Finché non siamo arrivarti in Colombia da
Angy… da quel momento ha cominciato a “riconoscersi” ed oggi rimangono alcune
parole e frasi in lingua spagnola che costituiscono il “loro linguaggio
privato, esclusivo”.
Davanti alla Catedral Primaria - Bogotà |
A primavera Darvin è stato introdotto alla scuola materna. Noi
ci eravamo interessati alla possibilità che entrasse nella classe successiva,
con i “piccoli”, per dargli il tempo necessario a recuperare tutte le
inevitabili lacune con la massima serenità. Questi bambini presentano sempre un
certo ritardo psicomotorio, dovuto alle condizioni di privazione in cui sono
vissuti, che va affrontato con serenità e pazienza. Una serie di verifiche con
la neuropsichiatra ci ha poi convinto a non fargli perdere un anno: ciò gli è
costato un grande impegno e ha dovuto dimostrare tanta tenacia. Forse avremmo
fatto meglio a seguire il nostro istinto…Con Angy, appunto, abbiamo fatto
questa scelta.
È così faticoso mettersi alla pari con i compagni?
Un aspetto di cui c’è poca consapevolezza in chi non conosce il mondo
dell’adozione è che l’abbandono per povertà è qualcosa di molto raro; tu non
abbandoni tuo figlio perché sei indigente: piuttosto vai a rubare. Questi
bambini provengono da realtà di enorme miseria morale, spesso hanno vissuto
storie atroci e comunque hanno subito una qualche forma di violenza, quantomeno
il rifiuto e l’incuria. Spessissimo sono bimbi tolti alle famiglie: i servizi
sociali esistono anche nei paesi del Terzo Mondo. Accoglierli significa
innanzitutto accogliere con grande delicatezza la loro storia, il loro dolore.
Le competenze “scolastiche” vengono molto, molto dopo.
Avete mai pensato all’affido famigliare? Sì,
ci abbiamo pensato. Prima di Darvin ci eravamo interessati, ma poi la cosa non
è mai decollata. Non ci siamo sentiti a nostro agio con le prospettive che un
affido può aprire: i rapporti con le famiglie di origine, la possibilità di un
distacco totale e definitivo dopo aver condiviso molto; ma anche, per contro,
il rischio di non sentire fino in fondo la responsabilità genitoriale quando
subentrano le difficoltà grandi…
Come è iniziato il percorso per la seconda adozione?
Dopo l’arrivo di Darvin è iniziato appena possibile poiché era un’aspirazione
di tutti e tre.
Come arrivate in Colombia? Darvin aveva
espresso il desiderio che venissimo indirizzati dall’ente (il CIAI, questa
volta) in America Latina ed evidentemente gli psicologi hanno accolto questo
suo bisogno di “ritrovarsi” in un fratello adottivo. L’integrazione a Premana,
negli anni, non è stata sempre scontata: il nostro paese non è del tutto a suo
agio con le differenze, nemmeno quelle somatiche.
Durante i colloqui con i servizi sociali vengono affrontati
questi argomenti? Sì indubbiamente sono tutte situazioni
con le quali vieni “costretto” a fare i conti prima, non ti colgono alla
sprovvista. Tra l’altro la reazione della gente davanti alla diversità è
qualcosa che i nostri bambini devono imparare a gestire, perché si ripresenterà
per tutta la vita. Lo puoi fare se hai sviluppato una sufficiente autostima e
se ti senti amato.
Si possono esprimere delle preferenze sul figlio adottivo? Non si tratta tanto di esprimere preferenze,
quanto di valutare a fondo le proprie disponibilità: cosa si è in grado di
accogliere rispetto ad età, etnia, problemi di salute, gravità dei traumi
vissuti… questi bambini sono sempre più spesso “special needs”, cioè
bambini con bisogni speciali.
Dunque siete stati inseriti in una specie di lista di attesa
colombiana? Sì, entri nella lista de espera straniera.
Ci sono dei tempi di attesa lunghi prima che ciò avvenga: a quel punto ricevi
una comunicazione direttamente dalla Colombia.
A giugno 2014, poi, veniamo chiamati per un colloquio di
approfondimento. Ormai siamo abbastanza smagati da intuire che c’è dietro
qualcosa… e infatti ci viene presentata Angy. A luglio abbiamo finalmente
accettato l’abbinamento, ai primi di ottobre siamo partiti e siamo tornati con
Angy a dicembre.
Il soggiorno in Colombia è stato piuttosto avventuroso…
Due mesi secchi di cavilli legali! Il procedimento giuridico in Colombia parte
all’arrivo dei genitori, sei tu che presenti la domanda di adozione. Ci sono
stati momenti davvero duri: sedute un po’ kafkiane in tribunale, scomodissimi
viaggi in auto di 400 chilometri fra Bogotà e Ibaguè, inutili tentativi di
abboccamento con alti funzionari; sempre tutto con figli al seguito… Però abbiamo vissuto anche tante giornate
stupende: nel nostro bel quartiere di Bogotà e alla scoperta del Paese. La
Colombia offre tantissimo in tutti i sensi; la sola Bogotà è una megalopoli di
10 milioni di abitanti. Al nostro arrivo ci siamo trasferiti a Ibaguè – la
città natale di Angy - dove, nella sede dell’istituto del Bienestar Familiar
abbiamo avuto un estenuante colloquio con lo psicologo señor Mauricio, che ha
cercato in ogni modo di terrorizzarci; poi è avvenuto l’incontro. Molto
teatrale, secondo il gusto e il carattere tipici dei colombiani, con tanto di
torta e palloncini e la bimba agghindata come una principessa. Dopo una
settimana abbiamo messo su casa nel vero senso della parola, in un
appartamentino della capitale: alla fine ci sentivamo davvero Bogotanos.
Come ha reagito Angy? Decisamene se ne
è infischiata della torta! Era stata preparata molto bene; ci aspettava, era
consapevole di ciò che stava vivendo e ci ha accolti a braccia aperte. Da
subito ha iniziato una vera love story con il «mi papito, mio amore!».
Angy ha dei trascorsi molto pesanti, difficili da gestire ancora oggi, ma è
stata da subito estremamente affettuosa e solare.
E Darvin come viveva la nuova situazione?
Darvin è un ragazzino reattivo di fronte ai problemi; soprattutto se percepisce
una difficoltà nei genitori, lui è incredibilmente positivo. Il fatto di dividere
per la prima volta le nostre attenzioni con qualcun altro lo rendeva un po’
irritabile, ma lo sconforto riguardava semmai la mancanza dei compagni, del
gruppo dei pari.
Stava vivendo un’esperienza umana molto forte: il contatto
con la lingua, i sapori, il clima, simili a quelli della sua prima infanzia; la
cultura che si respirava durante i nostri vagabondaggi; ma soprattutto il fatto
di ri-vivere l’adozione attraverso la sorella. Tutto questo ha significato
tanto per lui, a livello emotivo.
Le lungaggini che ci hanno fatto cambiare per ben due volte
la data di rientro erano motivo di forte stress per tutti: ci siamo inventati
perfino il «cartellone delle parolacce», dove scrivere gli improperi che ci
venivano in mente per scaricare tensione e farci una risata sopra. A posteriori
possiamo però dire che questo tempo lungo è servito: non solo a “fare i
turisti”, è servito a “fare famiglia”.
Poi mantenevamo i contatti: skype, facebook, whatsapp…
è stata un’adozione molto “social” questa; dal Guatemala, soli otto anni prima,
eravamo riusciti a telefonare a casa una volta.
L’assistenza dell’ente è rilevante all’estero? Noi ci siamo sentiti molto supportati: c’erano
l’avvocato - una vera iena, la psicologa, con cui abbiamo instaurato un
rapporto intenso, e Rodrigo, che ci aiutava nelle pratiche burocratiche. Tutti
realmente organizzati e disponibili.
Ci saranno da sostenere spese notevoli… Si
tratta dei costi amministrativi e di personale degli enti. Le tariffe sono
trasparenti, pubblicate sul sito della Commissione Adozioni. Poi ci sono i
costi di volo e di soggiorno, ovviamente a carico della coppia adottante.
Non è un caso se le adozioni internazionali sono diminuite
del 30% negli ultimi cinque anni. L’Italia rimane comunque il secondo Paese al
mondo che adotta, dopo gli USA e seguita dalla Francia. Noi a Bogotà abbiamo
trovato coppie da Genova, da Torino, da Napoli, da Roma… due di queste alla
seconda adozione.
Sappiamo che avete incontrato anche suor Maria.
Tradizione vuole che se viaggi in un Paese dove c’è un missionario premanese tu
lo vada a trovare… La scuola delle suore era a una ventina di minuti di taxi da
casa nostra, in un quartiere povero: dalle suore non ci aspettava solo un
piccolo pezzo di Premana, ma una casa ospitale e un valido sostegno morale e
pratico. I bambini si sono affezionati
subito; abbiamo festeggiato con loro il nostro 20° anniversario di matrimonio
e, grazie a suor Maria, ci siamo messi in contatto con la scuola italiana di
Bogotà per Darvin, che stava perdendo mesi di lezione.
Bagaglio leggero... |
A Bogotá c’è una scuola italiana?
Riconosciuta dal nostro Ministero. Ci sono tantissime scuole internazionali;
l’istruzione privata è l’unica di qualità e i colombiani facoltosi si rivolgono
lì. Come la sanità: quella privata è efficiente e all’avanguardia. Noi abbiamo
ricoverato Angy in una clinica universitaria in seguito ad una gastroenterite:
esami completi, consulti specialistici, igiene invidiabile, perfino una
vestaglietta azzurra con il logo della clinica…con una buona assicurazione o
una buona carta di credito puoi avere il meglio!
Dunque ci sono anche molti benestanti…
La Colombia è dotata di grandi risorse e sta vivendo un forte sviluppo
economico; poi però ci sono guerriglie, criminalità, economie illegali… e un
divario sociale da paura, inaccettabile agli occhi di un europeo. I campesinos
sono poveri e dignitosi, le baraccopoli delle città immense e terribili; ma i
parchi dei quartieri buoni sono pieni di bambinaie in divisa, dog sitter
che portano fuori esemplari di razza, giovanottoni accompagnati dal personal
trainer e bimbi firmati da capo a piedi. La seguridad privata è
ovunque; i centri commerciali di Bogotá offrono il meglio e a prezzi spesso più
elevati che da noi!
Avete vissuto un Paese molto a fondo. Sì,
per incontrare un luogo devi fare la spesa al supermercato di quartiere,
andare dal medico, viaggiare sui mezzi di trasporto che usa la gente…senza
intermediari.
Come concludereste questa chiacchierata? Un’adozione
internazionale è un’avventura dell’anima, un’esperienza umana impagabile. Noi
siamo una famiglia “sempre in völte”, ma ci piace così: non ci annoiamo.
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